Coronavirus – La vulnerabilità è camminare con il cuore
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21 marzo 2020
Mi dice la mia casa: “rimani, il tuo passato è qui!”
Mi dice la strada: “seguimi, il tuo futuro e qui!”
Io dico alla mia casa e alla strada:
“non ho passato, non ho futuro,
se resto c’è un andare nel mio restare,
se vado c’è un restare nel mio andare,
solo l’amore e la morte cambiano ogni cosa”.
Kahlil Gibran
Vi ricordate questo surreale e fantastico capolavoro dell’artista Fabio Consoli? È stato utilizzato per la locandina pubblicitaria dei “Compagni di Cammino”, la Festa dei Viandanti che abbiamo fatto lo scorso ottobre a Feltre.
Già dalla prima volta che la vidi mi colpi per la sua magia, per il suo potere metaforico e trascendentale, lui è veramente bravo. Avendola incorniciata e appesa a una parete di casa ho la possibilità ogni giorno di osservarla e di lasciarmi stupire dal suo potere evocativo. C’è un’alternanza tra sicurezza e precarietà, tra ombra e luce, che altro non è che il cammino della vita vissuto nella bellezza e nella sacralità. Certe espressioni artistiche hanno proprio questo potere, esprimere la magia dell’immanenza e la bellezza dell’impermanenza. Se un fiore fosse imperituro non sarebbe più bello, sarebbe un oggetto immobile, sempre uguale a se stesso. L’impermanenza e la vulnerabilità sono qualità fondamentali della bellezza.
Guardando questa illustrazione oggi ci scorgo un’impressionante istantanea sul momento attuale, un’incredibile metafora su ciò che stiamo vivendo tutti noi. Il filosofo Umberto Galimberti ci stimola dicendo: “Cosa ci sta insegnato il coronavirus? Che la vita è fragile e precaria. E lo insegna soprattutto a noi occidentali, che siamo il popolo più debole della Terra perché il più tecnologicamente assistito”.
Nell’opera di Consoli ritrovo questa precarietà in quei quattro tronchi sospesi e poi in quel’albero che è emblema della Natura, un “alveolo” del polmone del nostro pianeta Terra, anche lui infettato da un virus di nome: la stupidità dell’essere umano. Nonostante l’albero sia caduto e senza vita, è comunque lui la nostra salvezza, è quel ponte capace di portarci verso un’altra direzione, l’altra sponda. Per me l’altra sponda è la possibilità di continuare a vivere su questa Terra con la consapevolezza oggettiva della sua malattia e quindi, l’urgenza della sua cura. La sponda a destra al contrario è la pandemia dell’inconsapevolezza che si espande con i suoi micidiali sintomi in un’inesorabile apparente invisibilità. Se tutti insieme provassimo a tornare alla cognizione dei nostri atteggiamenti nel momento presente e quindi, per il nostro futuro, tutti insieme con lo stesso intento, come le quattro figure umane in cammino dell’opera, sarebbe possibile fare quel salto, urgente e necessario, che porta alla salute e ad un nuovo equilibrio.
Sono proprio quei quattro viandanti che, al contrario dei tronchi, ci donano la stabilità e la determinazione necessarie per andare avanti, si cammina insieme. L’illustrazione ci mostra un passaggio da un mondo egocentrico, basato sul profitto e sull’accumulo che macina e acceca, verso una nuova dimensione più umana e poetica, naturale e spirituale, una dimensione più lenta.
Oltre a ciò, nell’immagine scorgo un particolare interessante che me la rende ancora più profetica e contemporanea: i fiori rossi in fondo a destra. In quel cespuglio floreale ho associato per osmosi, l’ormai conosciuta immagine al microscopio del virus che tanto ci sta mettendo alla prova.
Che potenza l’arte con tutta la sua bellezza e la sua simbologia.
Ed allora l’auspicio, proprio come quelle quattro figure umane, è quello di impegnarsi a mantenere l’equilibrio nell’instabilità e la stabilità nell’incertezza, volgendo l’attenzione ai nostri passi e lo sguardo dritto di fronte a noi, il messaggio che voglio vedere è quello di non cadere né nel precipizio, né nelle angosce. Accogliamo al contrario questo momento di crisi e incertezza come un’opportunità per conoscersi, per accettarsi e per ritrovarsi nel cambiamento.
La psicoterapeuta Erica Poli a mio avviso esprime in modo meraviglioso come Il Coronavirus ci ricordi la nostra vulnerabilità, ma la novità importante da imparare potrebbe essere quella di amarla". A seguire un estratto di un suo articolo da “il Fatto Quotidiano” del 3 marzo 2020. Leggetelo potrà essere un buon aiuto e seguitela è un’esperta e buona guida nel cammino con le emozioni.
“Boccaccio sapeva che esiste un antidoto per le epidemie del mondo, che non toglie nulla alle misure sanitarie e alle sorveglianze infettivologiche, ma che è l’unico a cui tutti possono attingere: la capacità di ricreare dentro di sé una sicurezza nell’insicurezza, di stare comodi anche in un campo di tensione, di stare presenti e sentire se stessi e gli altri. Si tratta di trovare un posto sicuro nell’angoscia di archetipi atavici, come la peste e il contagio, che agisce spostando la coscienza verso la paranoia e il cervello al predominio del sistema arcaico limbico-rettiliano, che risponde al pericolo con la fuga e l’aggressività e vede negli altri e nel mondo solo minacce.
Stare nella propria campagna interiore, senza negare nulla del reale, ma continuando a vivere la bellezza, l’amore, la relazione.
Le ricerche delle neuroscienze affettive ci dicono che esiste un legame profondo tra paura, stress, sistema neurovegetativo e immunitario e che il sistema immunitario risente dello stato di angoscia, dell’isolamento sociale, del senso di insicurezza e rifiorisce quando si ha la percezione di sicurezza nel campo, quando si cerca la bellezza, la neuroestetica appunto, e quando si mantiene vivo il coinvolgimento sociale. Parlare di paura, continuare a guardare di ora in ora l’Ansa del momento, fa male alla biochimica e alla biofisica di corpo e anima.
Eppure il male ha un fascino: la solita storia del diavolo necessario. L’oscuro attira, un sadico serpeggiare di notizie catastrofiche eccita, come i gladiatori nell’arena. Adrenalina in pasto al bisogno di novità e di attivazione. Si potrebbe forse azzardare il ben noto tema dell’ombra: abbiamo bisogno anche dell’ombra, in questo mondo, per vedere la luce.
Ma se l’ombra prevale ci inghiotte. L’ombra è un progetto condiviso, di stati, di politiche e di economie: per vivere e prosperare ha bisogno solo di una cosa. L’inconsapevolezza di chi cattura. Basta che le persone non pensino con la propria testa, basta che non la guardino e l’ombra cresce. Invece quando viene guardata, si dissolve: non è risolta, ma è trascesa. Come quando un poeta, seppure mortale, è capace di scrivere parole immortali.
L’epidemia allora ci ricorda una cosa del tutto ovvia, ma che dimentichiamo troppo spesso: che siamo mortali e fragili, vulnerabili. In sette giorni se ne è parlato, come se fosse una scoperta. Invece è il nostro pane quotidiano, anche se non facciamo parte degli 815 milioni di persone che soffrono la fame o dei 5,6 milioni di bambini morti sotto i 3 anni.
La novità sarebbe poter guardare questa vulnerabilità e amarla. Questa sarebbe la forza.
Gli obiettivi dell’Agenda delle Nazioni Unite per il 2050 sono quelli di una pace globale che forse non può che provenire da un modello d’amore e non di profitto. Niente di sdolcinato, piuttosto il concetto di amorizzazione del mondo di Theilard De Chardin, scienziato e teologo. Ancora più realista, il concetto di amore come ordine ultimo, sistema dei sistemi di Henri Laborit, biologo e filosofo insieme. Umanesimo e scienza riuniti di fronte a quella vulnerabilità, che se non fossimo inconsapevoli potremmo guardare, amare e trascendere. Solo chi ama la tua vulnerabiltà ti ama davvero, diceva Ignazio Silone.
Ho contemplato le immagini del virus, per guardare in faccia l’ombra: è bello, con la sua corona e forse portatore di bene oltre il male… “I batteriofagi saranno la nostra arma futura per sconfiggere l’antibioticoresistenza”, Le Scienze, febbraio 2020.
In questi giorni che molto del correre quotidiano si è fermato, perché invece che correre di nuovo dietro alla paura, non fuggire nella campagna interiore, sul barcone che scorre lungo il fiume della pestilenza dove i due anziani di Gabriel Garcia Marquez fanno l’amore ai tempi del colera, perché non pensare di più, sognare di più, stare in silenzio di più? Henri Laborit ha scritto L’elogio della fuga, intesa non come un pavido scappare ma come via dell’immaginario che ci salva. Magari invece dell’Ansa…”
Buon cammino nella fragilità, nella vita, nell’amore.