La felicità erano l’erba e i datteri
Incontro con Said Zarrouk e Marina Pissarello
Intervista di Francesca Cappelli / Foto di Luca Massini
9 agosto 2014
Incontro Said fra le colline di Siena. Terra in cui non ti aspetti veder apparire un tuareg: era appena cominciata l’estate e le mura di Monteriggioni erano come sospese su un paesaggio verdissimo ed elettrizzante. Said e Marina, sua compagna di viaggio nei deserti, è qui per parlare di cammini. Said Zarrouk è il solo viandante con la pelle che parla d’Africa al Festival della Viandanza, appuntamento annuale per chi ama andare a piedi. Scorgi fin da lontano la tunica di stoffa morbida di Said, ha un inconfondibile colore vivo cobalto. Ti avvicini e osservi i suoi occhi di dattero.
È nato nel Sahara algerino, Said. Da una famiglia di pastori nomadi che non contava il tempo. Si è allora inventato un giorno e una data di nascita. Dice che è nato il primo Gennaio del 1972. Allora, in quella data che segna un capodanno di un calendario cristiano, cadeva, per i musulmani, Ramadan, mese sacro dell’Islam.
Un giorno, molti anni fa, per una sacrosanta e infinita ribellione degli uomini del deserto, vennero chiuse le frontiere fra Algeria e Marocco. Non le hanno ancora riaperte. Non era più possibile viaggiare in quell’Occidente del Sahara. I governi poi vollero costruire una diga. Scomparvero, allora, i pascoli per i dromedari di Said. La sua famiglia divenne sedentaria.
Incontro il nomade Said mentre vaga curioso fra i giardini di Monteriggioni. Tocca tutto quello che è sottomano; strappa fili d’erba; si assicura della ruvidità del legno della panchina su cui siede. Lo sguardo verso l’alto, a cogliere ogni tipo di movimento. Sempre assorto, sempre in cerca.
Senza parole, sono benvenuta con tre baci sulla guancia. Le sue mani raccolgono, in una stretta, le mie.
Said, durante il nostro colloquio, lascia volentieri la parola a Marina, compagna di viaggio tra le dune marocchine. Con movimenti eleganti, svelati nei panni comodi da viaggiatrice, anche Marina si racconta; emerge la sua grande personalità; il suo ethos passionale; l’amore per il paese che l’ha accolta.
Said e Marina, da tempo, organizzano viaggi nel loro deserto.
Lo djambè chiude la nostra chiacchierata. Lascio Said che sfiora con leggerezza il piccolo tamburo degli uomini del Nordafrica.
Come sei arrivata al deserto, Marina?
Marina: Said ha una storia da romanzo, la mia è semplicissima. E’ la storia di un’impiegata. Cammino da sempre. Fino a quando il mio viaggio ha assunto il significato metaforico di lasciare delle cose alle spalle. Mi sono allontanata dai sentieri che attraversano la mia terra per scoprire il deserto, il Marocco. Vivo comunque in Liguria. Non ho cambiato la mia pelle, non ho perso la mia identità. Passo dei periodi in Marocco abbastanza lunghi. Said è una guida di trekking, io ho un ruolo diverso: faccio un lavoro di mediazione culturale, ma detesto questa parola. Le persone vengono in Africa, in un paese profondamente diverso dal loro, magari non sono mai stati in un paese arabo. Hanno solo una settimana di tempo per ambientarsi. Il mio è un lavoro di facilitazione, cerco di fare da acceleratore di questo processo. La mia grande felicità è quando, dopo due o tre giorni, non mi considera più nessuno. Le informazioni, invece di chiederle a me, le chiedono ai ragazzi che lavorano come guide. Mi sento ancora più realizzata quando le persone mi dicono di essere arrivati con delle idee, ma di averle cambiate durante il cammino.
Bisogna stare attenti a non confondere il deserto con la desertificazione. Contrariamente a quanto potremmo immaginare, il deserto è un ecosistema perfetto, pieno di vita adattata a un ambiente estremo. La desertificazione è un’altra cosa, è l’effetto di un’ azione umana. Se il terreno viene coltivato e abbandonato, la natura non ha il tempo materiale di recuperarlo. In ambienti così ostici il terreno diventa polvere. E’ il problema del Sahel, la disperazione del Sahel. Quello che si cerca di fare, con molta umiltà, è anche semplicemente piantare un albero, per permettere all’ombra di creare la vita.
Cosa ‘insegnano’ i vostri viaggi?
Marina: L’immagine che abbiamo del Marocco è piena di pregiudizi, che sono reciproci. I media fanno là la stessa operazione che compiono qua in Italia. I muri sono ovunque funzionali ai giochi di potere e di guerra. “Se abbiamo un amico, uno solo, in un paese straniero, muovere guerra a quel paese significa muovere guerra all’amicizia che ci lega.” Noi facciamo incontrare, all’interno di viaggi responsabili. E’ un’operazione di pace, di legittimazione reciproca.
Qual è la tua chiave per entrare in Marocco, Marina?
Marina: Mi sono sempre sentita ospite, ma mai straniera. Ho sempre sentito intorno a me una curiosità bella. Considera che noi non li accogliamo così in Italia. Mentre noi possiamo andare, tornare, viaggiare, vedere… loro non possono. Hanno solo la televisione per farsi un’idea. Che, a volte, è distorta. Quando attraversi le terre di popoli un tempo nomadi non hai bisogno di niente. Il nomadismo dà accoglienza. Per necessità; per stile di vita; per cultura. Nella società del deserto, in cui si vive molto isolati, il viandante che arriva non solo viene rifocillato e ospitato, ma gli si offrono abiti nuovi. A me sono stati offerti abiti puliti e lasciavo i miei usati. Li abbandonavo in un giro. E’ una cosa straordinaria. Lascio quello che posso avere, prendo quello che serve. Questo è rimasto nel modo di accogliere nel nostro deserto.
Said, sono incuriosita dall’orologio che porti al polso. Ti serve?
Marina ride in maniera fragorosa. Said si limita a sorridere: ‘L’orologio è una necessità. Nel deserto, invece, non ha motivo d’esistere. Non sono abituato a portarlo, me lo hanno regalato. Così ho un orologio, ma chiedo sempre l’ora’.
Come scorre il tempo nel deserto?
Said: Ho fatto il pastore di dromedari nel deserto, ti posso raccontare la mia giornata. Nella mia vita da nomade, la giornata non era mai inattiva. Non esiste la noia. È una giornata di ricerca. E di comunicazione rispetto a quello che si è trovato. Per esempio, io andavo alla ricerca di un pascolo verde. Esploravo il territorio fino a scoprire un luogo dove gli animali potavano mangiare. Il giorno dopo, su mia indicazione, la tribù si spostava.
Cercare l’acqua; trovare un pozzo. Accudire i dromedari. Nella vita nel deserto, la giornata più faticosa in assoluto è quella dell’abbeverata. L’acqua va tirata su dai pozzi. Unici strumenti sono dei secchi. E i pozzi sono veramente profondi. Si trattava di dissetare fino a 140 dromedari, ogni quattro o cinque giorni. Il ‘pieno’ del dromedario alla ‘stazione di servizio’ è di sessanta litri. Un grande lavoro. Quello delle capre è meno faticoso, ma quotidiano. Adesso ci sono molti pozzi, una volta arrivavamo a fare cento chilometri per raggiungerne uno. Sai che parti e che arriverai solo quando vedrai il pozzo. Ciò che non sai è quanti saranno i giorni di cammino. Cento chilometri, per andare a prendere l’acqua e portarla alla tenda, sono due giorni per andare e due giorni per tornare. Poteva capitare di partire e di avere degli animali malati, che avevano ancora più bisogno di acqua. Per salvarli era necessario usare la scorta fatta per la tribù.
Cosa vuol dire essere nomadi?
Marina: Il fine del nomadismo è la ricerca del necessario, ma nulla più del necessario. Spesso il nomadismo viene definito come un rapporto predatorio con il territorio, ma io dico che non è vero. Il nomade prende con sé solo quello che può portare, quello che gli serve per un tempo limitato. E’ il sedentario che tende ad accumulare. Non ci rendiamo conto che è accumulare per conservare è una fatica immensa. Siamo schiavi. Possedere è una forma di schiavitù, di dipendenza.
Said, quando ti potevi riposare?
Said: Quando venivano i periodi piovosi, quando c’erano i datteri e l’erba. Quella era la felicità. Il senso della vita era questo. Quando non c’era necessità di spostarsi per due o tre mesi, perché il pascolo era buono. Allora, era vacanza.
Come si passa il tempo in vacanza?
Marina: Non esistono nomadi che non amino la musica. Il deserto invita alla musica. Poi ci sono i giochi di società, come le corse di dromedari. Oppure una specie di hockey giocato con le costole delle foglie di palma, che hanno una forma che ricorda la mazza. La palla è di pelo di dromedario. Il deserto, inoltre, induce all’introspezione e alla meditazione in maniera spontanea. I tuareg hanno un grande senso artistico e letterario. Said non è mai stato a scuola, ha conosciuto solo insegnanti nomadi, che tenevano lezioni dentro le tende. Non ha mai studiato sui libri. Eppure conosce l’arabo classico; e lo scrive bene. Ha vinto anche un premio per aver scritto una poesia, che è stata pubblicata da una rivista letteraria in Arabia Saudita. Said s’immagina di incontrare, nel deserto, una ragazza bellissima, che gli evoca l’Andalusia al tempo dei Mori.
Come vivono gli spazi donne e bambini?
Marina: I bambini fanno i bambini, beati loro. Rispetto ai nostri, fanno più dispetti. Combinano delle marachelle incredibili; litigano, si tirano i capelli; corrono e si divertono con niente. Le donne, se parliamo di donne Saharawi, sono molto divertenti, spiritose, curiose. Hanno il loro modo di vivere, che noi spesso giudichiamo. Noi andiamo in giro pensando che il nostro modello sia, in assoluto, il migliore. Il più evoluto. A noi, per esempio, inquieta osservare come le donne vivano i propri spazi separati da quelli degli uomini; e viceversa. Noi pensiamo che siano ghettizzate, ma gli attribuiamo solo le nostre etichette. Mi vengono in mente i maestri Sufi. Uno degli insegnamenti è questo: le coppie non devono vivere in eccessiva simbiosi. Consigliano di non pretendere di essere sempre insieme. Se una donna vuole il suo compagno costantemente vicino a sé, gli impedisce di crescere. Lo stare sempre insieme è un impedimento all’evoluzione reciproca. Suggeriscono di spendere un quarto della propria giornata con persone dello stesso sesso, perché il rapporto sia un aiuto alla crescita anche spirituale. Per diventare persone adulte. Questo aspetto del mangiare, donne e uomini, ognuno al proprio tavolo, è un’abitudine. Ancora più belli sono gli spazi di condivisione per le donne, come gli hammam. Fare gli hennè, prendersi cura del corpo. Noi viviamo molto diversamente, non c’è questa complicità tra donne. Anzi, siamo, molto spesso, in competizione. Là, il rapporto è di reciproco aiuto, di confidenza, di sostegno nell’accudire i figli. E le piccole cose piacevoli, come pettinarsi. Loro amano prenderti e dire: pensiamo noi a te.
Said, cosa abbiamo portato, noi occidentali, nel tuo paese?
Said: Avete portato i rifiuti. L’Occidente ha portato la plastica. È devastante, perché non c’è un sistema di raccolta. Non c’è ancora la mentalità di smaltire la spazzatura, non parliamo del differenziarla. Il territorio del deserto è molto aperto ed esposto al vento; anche ciò che viene messo in discarica, al primo refolo di vento, comincia a viaggiare senza nessun freno.
Marina: Noi, a volte, assumiamo degli atteggiamenti giudicanti: ‘perché buttano la roba così?’ Non sanno dove metterla, cosa farne. Adesso cominciano a capire l’impatto che la plastica ha sul loro ambiente. Prima non si buttava niente, non si sprecava niente. Ha ragione, Said: la cosa più evidente che abbiamo portato è la spazzatura.
Said: Un’altra cosa che è arrivata, è la chiave alla porta. Non c’è più un’accoglienza totale. Prima potevi entrare in una tenda, dare il Salam aleikum, ‘Che la pace sia con voi’. Presentarsi in pace garantisce una protezione, nessuno ti farà del male. L’ospite è vissuto come una ricchezza. Porta racconti; porta esperienze; ti dà informazioni su dove viene. È un valore. Per una civiltà che non aveva nessun mezzo di trasporto e di comunicazione se non i piedi e il dromedario, il viandante che arrivava era un notiziario vivente.