La montagna vivente

Questo libro ha una storia lunga e interessante: Nan Shepherd (1893-1981) era scozzese di Aberdeen, e alla sua regione dedicò la vita, fu poetessa e scrittrice, fu insegnante di letteratura, camminò per quaranta anni gli altopiani e le montagne del Cairngorm, ora un grande parco nazionale, a ovest di Aberdeen. “La montagna vivente” fu scritto negli anni della Seconda Guerra Mondiale, nel 1945 la Shepherd lo fece leggere al romanziere Neil Gunn, che lo lodò e ne fu colpito, ma le scrisse che forse sarebbe stato difficile trovare un editore. A quel punto la Shepherd lo mise in un cassetto e lì rimase per più di 30 anni, quando ormai anziana, lo tirò fuori e lo fece pubblicare, in sordina, nel 1977. Ma pian piano in Gran Bretagna è diventato un libro di culto, al punto che il grande scrittore, da noi molto amato, Robert Macfarlane (Le antiche vie, Luoghi selvaggi), autore qui di una lunga introduzione, lo considera uno dei libri di viaggi e di cammino più importanti mai pubblicati. La stessa Nan Shepherd è tornata in auge, e da poco il suo ritratto campeggia sulla nuova banconota da 5 sterline scozzesi. Ottimo quindi che finalmente Ponte alle Grazie l’abbia pubblicato in italiano, perché questo è un libro speciale, scritto benissimo.

Nella bella introduzione Robert Macfarlane fa notare come quasi tutta la letteratura alpinistica sia maschile, e racconti la conquista della vetta, mentre Nan Shepherd si inserisce a pieno titolo, raccontando non le cime, ma un altopiano tra le cime. E per Macfarlane questo libro è all’altezza del miglior Chatwin

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Luca Gianotti
21 giugno 2018

La Shepherd si colloca nella tradizione dei naturalisti anglosassoni, che sanno osservare i piccoli dettagli che la natura ci offre, e poi alzare lo sguardo e descrivere i paesaggi ampi, aerei, tutto intorno. Shepherd in particolare ama i colori e trova sfumature di colore sempre diverse in ogni cosa: l’acqua dei torrenti e dei laghi la vede verde, o trasparente ghiacciata, o azzurra, o viola, così come una tormenta di neve o un cielo.
“I pendii, di per sé perlopiù marroni, si fanno azzurri non appena li vediamo rivestiti d’aria. Assumono ogni tonalità d’azzurro, dal bianco latte opalescente all’indaco. Il loro azzurro si fa più opulento quando la pioggia è nell’aria. Allora le gole sono viola. Le tinte della genziana o della speronella, abitate dal fuoco, si annidano negli avvallamenti. Questi azzurri carichi hanno un effetto emozionale maggiore di quello che può produrre un’aria asciutta. Il blu ceruleo non commuove, ma la gamma dei viola può turbare la mente come fa la musica.”

Il valore di questo libro sono i piccoli pensieri profondi che la Shepherd fa osservando la natura. Un esempio: mentre descrive il Loch (lago) Avon, riflette sul rischio che questo luogo di silenzio possa in futuro essere violato da strade per fuoristrada o da funicolari, che ne rovinerebbero gran parte della magia: “Qui il bene della maggioranza non ha valore. Talvolta l’esclusività è necessaria, non in nome del rango o della ricchezza, ma di quelle qualità umane che possono apprezzare la solitudine”. E poco più avanti: “Io trovo che la tribù parlante desideri ricevere dalla montagna delle sensazioni. Non stupisce che i novizi facciano lo stesso (anch’io lo desideravo). Vogliono la veduta eccezionale, il picco terrificante, sorsi di birra e di tè invece che di latte. Eppure la montagna mi si concede in maniera più completa quando non ho una destinazione, quando non raggiungo alcun luogo particolare, ma sono uscita semplicemente per stare con lei come quando si fa una visita a un amico, senza altra intenzione che stare con lui”.

Anche quando racconta i fatti umani, Nan Shepherd ci lascia perle di saggezza. L’uomo è un piccolo ingranaggio della natura, e l’autrice lo studia come studia il piviere tortolino o lo scricciolo. Per esempio, è molto colpita dai tanti morti che queste montagne selvagge hanno fatto negli anni in cui lei le frequenta, e nel raccontare la terribile morte di due giovani, sopresi da una bufera di neve e ritrovati congelati, commenta: “Commisero, immagino, un errore di giudizio, ma io non posso giudicarli. È infatti il rischio che noi tutti dobbiamo correre quando accettiamo di assumerci la responsabilità di noi stessi in montagna, e finché non l’abbiamo fatto non possiamo saperlo”.

Ogni tanto, nelle pennellate di colore che Nan Shepherd fa dei monti su cui cammina, c’è qualche cenno all’attualità, quando per esempio cammina di notte senza luna, in una notte nuvolosa e con l’oscuramento dovuto alla guerra, per raggiungere un posto sopraelevato da cui ascoltare le notizie trasmesse alla radio. La storia delle umane vicende entra nella natura in punta di piedi, perché è una grande terribile guerra, ma è una piccola cosa se confrontata con i tempi e le dimensioni della natura. Nan Shepherd questo lo sa.
Come in un altro passo, quando commentando il fatto che nel 1940, a causa dell’urgente bisogno di legname per la guerra, il bosco è stato tagliato pesantemente, scrive, rassegnata ma consapevole della forza della natura: “Crescerà di nuovo, ma per un po’ la terra resterà sfregiata e gli esseri viventi – le cince dal ciuffo, i timidi caprioli – spariranno”.

Concludo con una lode per l’editore Ponte alle Grazie, sempre attento, creativo e originale nelle sue proposte. Da qualche mese ha scoperto il mondo del cammino, con la collana Passi, e ci sta proponendo letture davvero pregevoli. (LG)

Nan Shepherd – “La montagna vivente”, Ponte alle Grazie 2018 – 14 euro

PS: mentre scrivevo questa recensione ho appreso che un amico caro se n’è andato. Avrebbe amato moltissimo questo libro, o forse lo ha amato, non ci vedevamo da un po’.
Per tanto tempo abbiamo camminato insieme, poi i nostri sentieri si sono separati, ero sicuro saremmo tornati a calpestare gli stessi passi, ma tu te ne sei andato troppo presto, accidenti! Mi dispiace.

Fonte: il cammino /187

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