Sympathy for the devil
Camminando sul marmo viscido della piazza, Pierpaolo sembra aver realizzato d’improvviso il motivo per cui, per andare in montagna ci si alzi di prima mattina: la sveglia alle sei, anche nei rari giorni in cui si potrebbe restare a letto a poltrire, funziona da disincentivo per gli smidollati che hanno trascorso la notte a sbicchierare in giro fino all’alba… e mettono fuori i piedi dal letto solo dopo mezzogiorno con in faccia le pieghe del cuscino e gli occhi appiccicati dal collagene dei bagordi notturni. Eppure ad appena 25 anni fa parte anch’egli di quella schiera di anime prave che vagano “from disco to disco” nella movida cittadina, ma lui, al contrario di tutti gli altri, pur non rinunciando agli eccessi del sabato sera, si lascia persuadere, tutte le domeniche mattina, dal richiamo endemico dello stato brado.
“Anche stanotte, mi faccio lasciare in piazza -pensava -voglio tornarmene a casa a piedi, cullato dal cinguettio degli uccelli che appena svegli già si stanno organizzando la giornata; …si a piedi, con gli occhi pesanti e la bocca in putrefazione, convinto, quasi rassegnato, di dovermi alzare di qui a poco…”.
Solo 5 minuti lo dividono dal letto, chimera agognata da ognuno a quell’ora del mattino, solo pochi minuti di cammino nel freddo della notte che entra nelle ossa ma fa sentire vivi, prima di infilare la chiave nella serratura di quel portone gigantesco di noce massello, che sembrerebbe preludere ad un ambiente ampio e raffinato, quasi principesco. In realtà dietro a quel portale di marmo bianco levigato dal tempo, si nasconde un piccolo “pied-à-terre” di appena 50 mq, composto da un soggiorno che funge anche da camera da pranzo e camera da letto, da un minuscolo bagno senza finestra ed una cucina piccola ma ben attrezzata. Nonostante le dimensioni molto limitate, l’appartamento, certamente minimalista, possiede tutto il necessario per una vita in autonomia e si presenta, a chi ne varchi la soglia, ben arredato e rifinito, insomma un monolocale sufficientemente accogliente per un single.
“Bene, eccomi a casa, senza indugio alcuno tiro via scarpe e vestiti e, come al solito, per guadagnare qualche manciata di minuti di sonno, conviene indossare, anziché il pigiama, gli abiti da montagna e poi dritti a letto già (ancora) vestiti”.
Nel tentativo di porre ordine alle azioni sconfusionate della propria vita, Pierpaolo era solito fare una cronaca ad alta voce delle operazioni da compiere, per chiarire a se stesso di avere un progetto più o meno definito a cui lavorare ed allo stesso tempo raccontarsi, come fosse un cronista, gli attimi concitati di una vita in continuo divenire. Lo faceva così spesso che a volte dimenticava di non esser solo ed allora incontrava, suo malgrado, gli sguardi esterrefatti degli astanti, a cui seguiva inevitabilmente la classica risatina a metà strada tra la derisione e la compassione, o peggio ancora entrambe le cose insieme.
“Lo zaino invece lo preparerò domattina (vale a dire tra un paio d’ore) in fretta e furia… per adesso, senza perdere neanche un secondo di più, puntiamo la sveglia e buonanotte…”.
E’ in quel momento che improvvisamente si rende conto dell’assurdità che sta compiendo, è la distanza temporale tra l’ora attuale e l’orario impostato per la sveglia che solleva il velo alla pazzia: appena 2 ore di sonno ed in quelle condizioni poi, come fosse il riposino pomeridiano dopo il pranzo pasquale, piuttosto che una dormita ristoratrice dopo una nottata da rock star.
… Ed allora facciamolo insieme a lui questo viaggio sulle “sue” montagne, cosicchè possano diventare, lungo l’andare fluente del racconto, anche le “nostre”.
“ Come al solito esco in ciabatte con gli scarponi a tracolla spacciandomi per quello tecnico che indossa solo in loco gli attrezzi del mestiere, ma la verità è che vado talmente di corsa che non trovo mai il tempo di farlo a casa. Già comincio a sentire i primi mugugni di chi scalpita ai box di partenza e mal digerisce l’insolenza di un ragazzino, di arrivare sempre all’ultimo minuto, mentre gli altri sono in piedi da più di un ora. Vorrei ribattere che sono stati proprio i loro figli a lasciarmi in piazza meno di 2 ore fa, ed ora dormono a culo sturato nel caldo del lettuccio, io almeno ho avuto le palle per fare entrambe le cose… ma non ho tempo da perdere ed allora, abbasso la testa (non in senso di resa) e faccio più in fretta che posso a legare quei lacci interminabili; in quel silenzio sento borbottare lo stomaco che mi ricorda che, in quella strambalata catena di montaggio, non mi è riuscito nemmeno di fare colazione.
All’attacco del sentiero, la mente, fino ad allora impegnata a impartire al corpo comandi meccanici per non perdere l’appuntamento, al primo passo di libero pensiero, precisa come un orologio, la mente partorisce il classico “ma chi me lo fa fare?”. Di certo almeno in questo, troverò concordi tutti quelli che all’idea, si rigirano nel letto rimboccandosi le coperte.
Il disagio dura poco, giusto lo spazio di uno sbadiglio, chè già al secondo passo, il ritmo cadenzato del respiro fa’ piazza pulita di tutte le elucubrazioni mentali, consegnando al giorno un animo limpido e ben disposto ad assaporare sensazioni autentiche. Certo il divario da colmare rispetto agli altri è sempre notevole in termini di ore di sonno, freschezza atletica e soprattutto di consistenza della flora batterica nell’intestino… già perché notti come questa danno un bel da fare ai succhi gastrici, che si affannano per quel che possono ma con scarso successo, a ripristinare la situazione di normalità pre-esistente. Tutto questo patire mi relega, tanto per cambiare, in fondo al gruppo, intento a divorare, cammin facendo, quel poco che son riuscito ad arraffare nella foga dell’ultimo minuto: un pomodoro, una scamorza ed un tozzo di pane sul mobile della cucina. Mi infilo la mano libera in tasca e riconosco al tatto la sagoma squadrata dei cioccolatini alle mandorle, sottratti ieri sera dal vassoio che mia madre imbandisce per gli ospiti sul tavolo della sua camera da pranzo… chè a questo punto qualunque risorsa può rivelarsi preziosa per l’assorbimento della rugiada amara piovuta nella notte.
E quando, con quell’incedere affaccendato, mi ritrovo a camminar da solo in fondo al gruppo, succede che inizio un viaggio tutto mio e pian piano mi dimentico degl’altri: ogni fessura nella roccia mi inspira una tana, un covo che attira lo sguardo, ogni profumo insolito mi porta a sfregare le mani sulle piante per rintracciarne la provenienza, ogni rumore cattura l’attenzione ed arresta il respiro per mettermi in grado, nel silenzio interiore, di percepirne la direzione; lo sguardo si fa’ più intraprendente ed allora vedo coleotteri goffi ma ingegnosi aggomitolare palle di terra camminando a ritroso, mantidi inermi aggrapparsi a steli d’erba sballottati dal vento, applicando con disarmante pressapochismo la strategia del mimetismo, macchie nere sulle rocce in lontananza, che pian piano prendono le sembianze di uccelli, finchè il frullo delle ali scioglie la mente da ogni dubbio.
La montagna, riflette Pierpaolo, permette di guardare le cose da lontano e dall’alto, concedendo al viandante il distacco necessario per valutare le situazioni da una diversa prospettiva e senza pregiudizio … è proprio quel che accade quando mi lascio alle spalle il rumore, la concitazione, la fretta e l’odore acidulo dell’asfalto, per rifugiarmi quassù nella solitudine dell’anima.
Lo scarpone che affonda sui sassi, il fiato che soffia nel petto, il volo del passero che fende l’aria, tutto riacquista il proprio valore: rumori, visioni, sensazioni autentiche ormai sconosciute alle ruote dentate dei robocop che popolano la giungla metropolitana, accecati dal desiderio di arrivare chissà dove che inevitabilmente soffoca il gusto del viaggio.
Mi fermo un poco per prendere riposo, e subito lo sguardo si volta verso valle, dove lo scenario si allarga limpido sotto l’orizzonte… ho quasi la sensazione di essere incastonato dentro un’immensa campana di vetro, osservato a mia volta, dal di fuori, da qualcosa o qualcuno più grande di me, a cui appaio come un insetto insignificante nel proprio microcosmo. Una di quelle campane trasparenti che si vendono nelle bancarelle vicino ai monumenti, a cui basta anche solo una scossa, sferrata per il capriccio di una mano gigantesca, a far piovere neve.
Questo è “i repusature”, un breve falsopiano, in cui il sentiero si allarga spianando leggermente, e concede al viandante, dopo lo strappo iniziale, lo spazio ed il tempo di tirare un po’il fiato ed ammirare il panorama. In lontananza si apre la pianura, come un patch work dai colori pastello, con migliaia di rettangoli dalle tonalità e dimensioni più disparate, disposti ora in senso longitudinale ora in senso trasversale e, a ben guardare, lungo i confini, si indovinano fossi, ruscelli, canali e fiumi. All’orizzonte, a chiudere questa pittura ad acquarello, le montagne grigie per gran tratti, son dipinte dai boschi e dalle cime già imbiancate per la prima neve di ottobre; più vicino, in primo piano, il Castello, possente e placido guerriero assorto, dal colle su cui è adagiato, a dominar le case, le terre e le persone.
I Repusature, è il luogo in cui le donne del paese salivano ogni mese a portare ai mariti pastori, la biancheria e le provviste per l’alpeggio e ricevevano in cambio latte, formaggio, a volte funghi e magari qualche agnellino di primo latte da destinare alla vendita o al consumo domestico. Quanti abbracci, quanti racconti, quante gioie e quante lacrime potrebbero raccontarci queste pietre; e quante scene di amor frugale hanno rubato all’intimità del nido familiare.
Lo sa bene chi va per monti, che le soste non possono durare troppo a lungo; i muscoli si raffreddano e si perde il ritmo dei passi; … ed il mio cuore già scalpita per riprendere la marcia… senza contar che ormai recuperar terreno sugl’altri è impresa a dir poco impossibile; ma più tempo trascorro in solitudine e più mi accorgo che quell’isolamento e quella distanza diventano per il mio animo una dolce compagnia: decido, allora, in quel preciso istante, di abbandonare il gruppo e proseguir da solo, per una strada alternativa.
Ora che l’aria scalda ed il fisico comincia ad espeller tossine, è giunto anche per me il momento di alleggerirmi del vestiario e trasferire nello zaino tutto il fardello. Pasquale è qualche decina di metri più avanti, intento a compiere la medesima operazione. C’è qualcosa di veramente essenziale nell’abbigliamento da montagna? Bhe innanzitutto le scarpe, che sono la prima cosa su cui investire in montagna, una buona giacca a vento è qualcosa di cui non si può fare a meno, guanti e cappello d’inverno e poi tutto il resto. E pensare che le prime uscite le facevo in anfibi, quelli militari con la suola in Vibram ma con la pelle dura come una cotica, acquistati di contrabbando a Via Sannio, jeans, camicia e maglione, diventati troppo logori per la vita civile; i guanti buoni li prendevo in prestito da mio padre, la giacca a vento blu con la banda catarifrangente, me l’aveva procurata Zio Michele dipendente Enel, la mazza (preferibilmente di Ornello, un legno flessibile ma resistente) la costruivo da me durante il cammino… tutto a costo zero o quasi e tutto (anche la mazza) mi è durato per anni, fino alla totale inservibilità… ma quelli erano altri tempi
Oggi chi è intenzionato a fare una gita fuori porta, prima ancora di saper dove andare, prima ancora di saper se riuscirà davvero a partire ed arrivare, è obbligato ad entrare nel negozio specializzato, carta di credito alla mano e testa piena di vanità… ne esce vestito di tutto punto, bardato come dovesse attaccare un 8.000 metri, con il carrello della spesa molto più pesante ed il conto in banca molto più leggero…. Shopping compulsivo? Potere della pubblicità? Contribuzione alla crescita del PIL? Domande troppo complesse per trovar risposta, qui ed oggi, specialmente dopo una nottata in bianco. Comunque adesso anch’io dispongo di un abbigliamento tecnico di tutto rispetto e quindi non ho nulla da invidiare ai novelli Bonatti della bassa: tutto materiale non indispensabile (scarpe e giacca escluse) ma che sicuramente migliora di molto la godibilità della passeggiata.
Approfitto, dunque di Pasquale, ancora alle prese con la giacca da riporre nello zaino, per avvertire la comitiva della mia intenzione; lui non fà domande, d’altronde è abituato alle mie stranezze, ma sa anche che conosco quei posti come le mie tasche e che non c’è bisogno di fare raccomandazioni. Gli chiedo solo di avvisare gli altri che li avrei raggiunti in cima, sotto la croce.
Pieno di energie ed eccitato per la nuova avventura che mi accingo ad iniziare, svolto a sinistra per un sentiero appena percettibile, in direzione di una roccia stretta e alta a forma di fungo, e da lì, in un continuo sali e scendi, rapido come una lepre scompaio alla vista degl’altri. Costeggio un canale che si apre sotto di me profondo come una ferita sulla pancia del monte, lasciandomi sulla testa i balzi di roccia che nascondono il “Passo del lupo”, riconoscibile dai più esperti per via del cespuglio sempreverde che sta incastonato nella pietra, come il ciuffo di vischio sui portali delle case a natale. La strada non è segnata e mi faccio guidare dal tappeto di pietre bianche che marchiano il percorso; a volte sembrano sfumare tra le erbe ingiallite dal freddo, ma dietro ad ogni roccia, al lì di là di ogni dolina, prosegue la traccia, a tratti chiara ed agevole a tratti meno intuitiva.
Superato l’ennesimo costone mi si para davanti, come un tempio ellenico, una facciata di rocce alte più di 6 piani, con striature grigio-rossastre, dalla forma sinuosa, bucate da grotte sospese che sembrano occhi cavi di uno scheletro titano. Anche qui ciuffi di vischio penzolano nel vuoto ma, a ben guardare, altro non sono che alberi frondosi alti di almeno 3 metri, nati quasi per scommessa nelle fessure della pietra.
Mi avvicino avvinto da tanta maestosità, avanzando a passi decisi e senza guardar per terra, incurante delle erbe, frasche, massi e buche che macino sotto i piedi. Giungo fino alla base di quella muraglia scavata dal tempo e presto mi accorgo di non essere il solo ad amare quel posto. Abbassando gli occhi sulla terra, mi imbatto in una miriade di palline di sterco secco che, con fragranza organica, profumano l’aria e concimano il terreno. Sono al cospetto del “bancone” come viene chiamato dai pastori… e l’incantevolezza del luogo è tale da farmi sperimentare ogni volta un nuovo stupore. Ricordo ancora l’entusiasmo della prima volta; fu Sandro a mostrarmi questa via inusitata, un pastore con l’inseparabile “lupetta” un cane da tocco, con cui comunicava con la voce, con i gesti e persino con lo sguardo. Era un cane usato per governare le pecore, un bastardino color cappuccino di taglia media, con muso appuntito ed orecchie aguzze, come quelle del lupo; non il classico cagnone bianco dal pelo soffice e arruffato, che compare nelle favole e nei cartoni animati a guardia delle greggi per difenderle dagli attacchi dei predatori.
Mio padre, mi ricordo, mi raccontò una volta che i cani da tocco sono per metà cani e metà lupi, nati dall’incrocio tra lupe e cani inselvatichiti. Al momento dello svezzamento, la lupa conduce i cuccioli presso una pozza d’acqua per farli bere ed osserva il loro comportamento: chi succhia come i lupi viene tenuto, chi invece lecca, viene scacciato in quanto più simile ai cani. E’ per questo, sosteneva mio padre, che i migliori cani da tocco sono quelli che i pastori trovano vicino alle fonti d’acqua, perché essendo per metà lupi, riescono ad incutere alle pecore il timore necessario per farsi ubbidire. Tenendo conto che all’epoca io ero solo un bambino, la storia ha tutta l’aria di essere una favola, tanto più che i pastori non trovano i cani vicino le fonti, ma li fanno nascere accoppiando tra loro i cani da tocco.
Avete mai visto un cane da tocco governare un gregge? Una vera meraviglia… un orchestra di energia, vitalità intelligenza e cinismo. Al richiamo del pastore, secco e preciso, il cane parte all’assalto delle pecore, abbaiando e digrignando i denti, mordicchiandole alle zampe con decisione ma anche con delicatezza, le indirizza e le spinge nella direzione indicata dal pastore. Un buon cane da tocco sa ben dosare aggressività e dolcezza, così come dovrebbe sempre essere per chi è deputato a farsi ubbidire sul posto di lavoro, come in famiglia, come in ogni altra situazione della vita.
Mi fermo di nuovo, proprio lì, “sotte i bancone”, seduto su un masso, di nuovo rapito dal panorama che pur essendo lo stesso, mi appare diverso in quanto sono mutati altitudine e angolo d’osservazione.
Odo salire dal paese, il suono della campana che annuncia la messa delle nove e insieme ad essa una musica tutt’altro che clericale, un suono mal posto, che poco si addice a quella visione celestiale… mi pare di riconoscere la chitarra di Keit Richard ed il falsetto di Jagger negli “uh –uh” di “Sympathy for the devil”… ma cosa sta succedendo?… cosa c’entrano ora i Rolling Stones e da dove viene la musica, così chiara, viva e dirompente?… dove sono gli altoparlanti? Siamo in montagna, non c’è corrente quassù; oddio, comincio ad avere una vaga sensazione della dura realtà… apro lentamente l’occhio destro, alzando a sforzo la palpebra incollata e vedo il giallo bagliore dei numeri “06.30” illuminare tenuamente la stanza… noooooooo, era tutto un sogno, sono le 6 e mezzo e la sveglia mi intima di alzarmi…
Ancora un po’, indugio ancora qualche minuto nel letto caldo che ora mi sembra accogliente come il ventre materno… ma so già che oramai il sacrificio è inevitabile, tanto vale affrontare di petto la situazione e balzare giù a pie’ pari… detto fatto, Mik Jagger è ai suoi ultimi vocalizzi, quando ancora (già) vestito entro in bagno per immergere la testa sotto il rubinetto dell’acqua fredda… emetto un grido lungo come fossi un lupo, per il brivido gelido che mi risveglia almeno nel corpo e, con la tovaglia ancora penzoloni sul collo, corro a prepararmi lo zaino… prendo quello che mi capita a tiro: la giacca a vento, i guanti e il cappello, qualcosa da mangiare e, sempre di corsa, imbocco il portone…
Come al solito esco in ciabatte con gli scarponi a tracolla spacciandomi per quello tecnico che indossa solo in loco gli attrezzi del mestiere, ma la verità è che vado talmente di corsa che non trovo mai il tempo di farlo a casa. Già comincio a sentire i primi mugugni…”.
Germano Contestabile
3 luglio 2011