Apsara, Irin, Marwah, nella mia terra di confine

“I migranti sono un dono, non un problema”, diceva Papa Francesco. E noi abitanti delle terre di confine, in Friuli Venezia Giulia, siamo pieni di doni. Siamo gente fortunata, anche se c'è chi non sa di esserlo.
Ci sono persone di buona volontà, come le operatrici e gli operatori dell'ICS, il Consorzio Italiano di Solidarietà, che a Trieste danno una nuova vita a chi è fuggito dalla propria casa. Grazie al suo presidente, Gianfranco Schiavone, ho conosciuto due donne che possono essere dei fari nei tempi bui che stiamo vivendo (consiglio di dare un'occhiata all'ultimo - cupo - report di Amnesty International).

Luigi Nacci
13 mai 2025

Apsara ha venticinque anni e ha lasciato il Nepal un anno fa. Sposata e con una figlia piccola, rischiava la vita per mano dei suoi stessi famigliari, contrari al suo matrimonio con un uomo di una casta inferiore. Ѐ volata in Serbia, poi ha camminato per un mese fino a Gorizia, in inverno, con uno zaino pieno solo di pane e acqua, dormendo in un sacco nero delle immondizie. Apsara da sette mesi studia l'italiano, lo parla già bene, mi dice: “In Nepal non c'è più una casa per me”. Le chiedo che cosa sogna, e di colpo sorride: “Rivedere mia figlia, avere i documenti, migliorare il mio italiano e trovare un lavoro, ma soprattutto rivedere mia figlia”. Vorrebbe fare l'estetista, oppure la badante, perché con le persone anziane si sente in pace. Prende spesso l'autobus e va in Carso a camminare da sola. Trieste le piace perché ci sono tanti stranieri e c'è il mare. Ora vive in un appartamento con altre donne nepalesi, ma appena arrivata è stata in tenda nell'ex Silos, un edificio fatiscente accanto alla stazione. Una pachistana l'ha aiutata ad uscire da lì, così come un bengalese l'aveva aiutata appena arrivata a Gorizia, e altre donne dell'ICS l'aiutano ora. Quando parla di quelle persone il sole entra più forte nella stanza.
Irin invece di anni ne compirà cinquanta in autunno, ed è arrivata a Trieste vent'anni fa. Ѐ fuggita dal Bangladesh con il suo figlio più piccolo perché rischiava la vita per la sua attività politica. Era un'imprenditrice, si occupava di mobili in ferro battuto. Ha dovuto ricominciare daccapo, facendo le pulizie e cucinando, finché, con l'aiuto dell'ICS, è riuscita ad aprire un negozio di alimentari. Ci sistemiamo tra scaffali con cibi di tutto il mondo, mentre entrano in continuazione clienti sorridenti. Vogliono tutti bene ad Irin, e si capisce il perché: è accogliente. Al corriere sudato che le porta dei pacchi dice: “Prenditi da bere qualcosa di fresco”, esattamente come ha fatto con me appena sono entrato. “Prima di partire non avevo sogni, avevo la testa vuota”, mi dice. “Questo negozio mi ha insegnato tanto: qui le culture si scambiano. Ora sogno di aprire un ristorante”. Ama esplorare Trieste a piedi, come Apsara. E come Apsara prova riconoscenza per le persone che l'hanno aiutata. “Nei momenti difficili non sono mai stata lasciata sola, come quando sono stati uccisi i miei genitori in Bangladesh”. La guardo e penso che dovremmo essere noi triestini ad esserle riconoscenti.
Il terzo dono si chiama Marwah. Ѐ irachena, e a lei arrivo grazie a don Paolo Iannaccone, presidente del Centro di Accoglienza Ernesto Balducci, che si trova a Zugliano, in provincia di Udine. Come chi l'ha preceduto - don Pierluigi Di Piazza - è un prete degli ultimi.
Marwah, trentanove anni, famiglia abbiente, ingegnera in una grande azienda in Iraq, era destinata a un matrimonio combinato, ma si è innamorata di Mohamed, un uomo curdo, e lo ha sposato in segreto. Per salvarsi la vita è fuggita. “In Olanda una donna che lavora in un'organizzazione umanitaria mi ha parlato del Centro Balducci. Mi sono affidata e sono partita”. Ѐ arrivata al centro tre anni fa, poco dopo ha trovato lavoro come cameriera in una pasticceria e l'anno scorso è andata a vivere da sola in affitto. Da poco è arrivato finalmente suo marito, e tra poche settimane avranno una figlia, Aurora. Marwah ha un sogno: trovare un posto da ingegnera, comprare una casa e vivere qui con la sua famiglia.
Shahram Khosravi, in un libro che tutti dovrebbero leggere, 'Io sono confine', racconta di un incontro con un uomo durante la sua fuga. Gli confida la sua situazione disperata e il timore di restare bloccato a vita in Pakistan. L'uomo sorride e gli dice: “Figliolo, nessuno può chiudere la porta del mondo”.
Questa terra di confine può essere una barriera. O può essere una porta aperta, una soglia chiara dove ci si scambiano i doni e i sogni, e si vive in pace.

di Luigi Nacci
Corriere della Sera | Martedì 13 maggio 2025