Il cammino della decrescita possibile
Quante le discussioni sul cos’è o non è la “decrescita felice”, la proposta economico filosofica di Serge Latouche. Estimatori e detrattori. Il rischio è, come per le diatribe politiche, di fare riflessioni astratte, completamente slegate dalla realtà che ognuno di noi vive.
E allora subentra un senso di sfiducia e di impotenza, e non capiamo più come possiamo contribuire personalmente al cambiamento delle cose.
Il cammino della decrescita possibile.
Camminare negli anni mi sta facendo diventare più concreto e realista.
Mi sta insegnando che un’idea, un pensiero, una teoria, debbono avere gambe su cui marciare.
Il metodo del passo dopo passo rivoluziona l’approccio ai problemi, spostando l’attenzione dalle ipotetiche mete al come andare avanti, qui e ora, con le energie vere di cui dispongo.
Chi cammina smette di mentire a se stesso e agli altri, sa osservare ciò che incontra con più senso critico, è costretto a fare scelte ponderate.
Il viandante che sbaglia percorso paga pegno, quindi sta bene attento alle situazioni che gli si presentano, conosce la pazienza e l’arte di trovare la strada giusta.
Mi sembra una pedagogia importante per affrontare tempi di crisi.
La decrescita non ho bisogno di immaginarla. La vivo già giorno per giorno negli ultimi anni, e con me la maggioranza delle persone che mi circondano.
Il lavoro retribuito è diminuito, e continua a diminuire. Di conseguenza, il denaro ed i risparmi sono drasticamente calati, riducendo via via non un consumismo a cui non ho mai aderito, ma uno stile di vita fatto di normali piccoli piaceri, che si affiancavano agli onerosi doveri.
Si rinuncia a tante cose, eccome se si rinuncia. La decrescita non è un concetto futuribile o auspicabile, la viviamo sulla nostra pelle ora, ci facciamo i conti, amari, da diverso tempo.
Il problema è come attraversarla questa decrescita, in cui siamo caduti dentro senza averla scelta, senza vederne una via d’uscita positiva. Decrescita subita, insomma.
E la decrescita… felice? Sembra a questo punto una provocazione.
Eppure, se guardo a fondo quello che mi sta succedendo, che ci sta succedendo, osservo qualcosa di curioso. È come stessimo uscendo da una specie di incanto, dal sogno del “tutto possibile”, da un opportunistico vivere senza porci problemi. L’andare al massimo, non chiedendoci se poi si va a sbattere, fregandosene del come e dove saremmo arrivati coi nostri comportamenti sregolati.
Ho cominciato a interrogarmi meglio, magari perché sono stato costretto a farlo, se è poi il denaro che mi rende felice. E la risposta che faticosamente mi sto dando è “no, non è il conto in banca che mi ha finora reso felice… sì, ci sono altri valori ed esperienze che riempiono la mia esistenza di gioie più autentiche.” È una lenta riconversione dalla quantità alla qualità, dal materiale allo spirituale, dal benessere individuale alla difesa dei beni comuni, dall’egoismo alla solidarietà.
Capisco che la felicità è fatta di piccole cose, gesti alla mia portata, legati alla semplicità ed all’essere autenticamente me stesso, piuttosto che alle complesse aspettative che la civiltà produttivista ci propone, col conseguente dover apparire al primo posto.
Capisco che la felicità la posso raggiungere con una politica di normalissimi passi… non c’è bisogno di correre. E che non debbo lasciarmi distrarre da ciò che non c’entra niente coi miei reali bisogni.
Capisco che è importante avere buoni compagni di viaggio, che da soli non si va da nessuna parte, che la fragilità mi è connaturata, che aiutarci l’un l’altro fa superare le difficoltà.
Se decresce il dio denaro, può crescere il ritrovarmi essere umano consapevole.
Allora continuo a camminare, perché la felicità è una ricerca, perché nessuno me la regalerà, perché dipende solo da me la direzione che farò prendere alla mia vita.
Guido Ulula alla Luna