Io cammino in fila indiana
Stare in fila non mi piace. Spersonalizza. Mi sento un numero.
La sindrome della formica. Noi ambiamo all’individuazione.
Da quando la maggioranza dell’umanità vive in megalopoli
siamo prede di questa contraddizione.
Speriamo di non sentirci soli circondandoci di milioni di nostri simili.
E invece sperimentiamo la peggiore crisi d’identità che l’umanità abbia conosciuto.
La città è l’emblema della solitudine esistenziale dell’uomo contemporaneo.
Mille occasioni d’incontro ogni giorno,
ed un deserto di comunicazione che ci cresce dentro.
Io cammino in fila indiana.
Ho scoperto il camminare consapevole, in gruppo, conviviale.
I ritmi lenti dell’andare con lo zaino in spalla.
Attraversare boschi e antiche contrade.
Riscoprendo l’arte dell’incontro con chi è inserito nel territorio e ti ospita.
Scambiando parole autentiche coi miei compagni di viaggio.
La fila indiana dà forza ai suoi componenti.
Seguire il passo di chi ti precede, sapendo che il tuo passo è seguito da un altro.
È un legame che non soffoca, anzi.
È appartenenza. Crea solidarietà d’intenti.
Cura alla radice il male mio più profondo.
Quel senso d’inutilità che mi pervade quando non sono in sintonia coi miei simili.
La fila in cammino è empatica.
Io sono lì per sostenere te. So che tu sosterrai me.
Ci sarà tempo per le incomprensioni.
Ora, nel passo dopo passo, siamo un corpo solo.
Ricordiamo le nostre origini di mammiferi.
E che il mondo l’abbiamo scoperto a piedi.
Con piccoli e coraggiosi clan guidati dalla curiosità della scoperta.
Il futuro lo immagino così.
Gruppi omogenei e diffusi di persone,
collegate fra loro, che si aiutano vicendevolmente.
Una rete che non ingabbia.
Una rete che unisce, nel rispetto delle diversità.
Tante tribù, un unico grande popolo.
Sì, gli indiani d’America vivevano in modo più armonioso.
Fra di loro e con l’intero Creato.
Guido Ulula alla Luna