Non ricordo il nome del villaggio. Me l’avevano anche detto, ma non lo ricordo più. Le sue coordinate su Google Maps, potete verificare, sono 49.855755 e 90.885459. Ecco, cosi’ lo chiamerò Novanta.
Quello che ricordo benissimo sono invece le emozioni provate nella manciata di ore passate li mentre aspettavamo i pulmini UAZ, mezzi indistruttibili lasciati dall’Unione Sovietica, che ci venivano a prendere al termine del cammino.
Il villaggio dei minatori Kazaki era il nostro punto d’arrivo. Lo attendevamo da giorni perché ci avevano detto che nell’unico “ristorante” una signora preparava e cuoceva al momento fantastici ravioloni. Ripieni di capra, ovviamente, ma comunque fantastici. E si, confermo, i ravioli erano fantastici; il ristorante, be, diciamo che l’ASL avrebbe qualche piccola perplessità. E comunque la signora ha avuto un bel daffare per sfamare 14 camminatori italiani che da giorni mangiavano capra bollita e poco altro.
Il villaggio è il luogo più povero e disperato che abbia mai visto. E si che di posti poveri ne ho visti… Gli slum di Mumbai e Dehli, i villaggi rurali dell’Andhra Pradesh, certe cittadine industriali della Cina. Si, quei posti erano poveri, ma negli occhi della gente c’era ancora vita. Bastava sempre poco per scatenare l’allegria generale, una festa famigliare, una ricorrenza religiosa, una visita.
A Novanta no. Quello era un luogo miserabile. Da li la prima a scappare era stata la vita, e da molto tempo.
Novanta lo chiamano villaggio kazako perché è un grumo di casupole abitato da kazaki. Sorge vicino a una miniera di carbone. Te ne accorgi per le due montagne di scorie appena fuori dal villaggio, per i pezzettini di carbone disseminati ovunque, per la polvere nera che impalpabilmente ricopre tutto. Alla miniera lavorano solo kazaki.
Mongolia e Kazakistan non hanno tratti di confine in comune. Ma il Kazakistan dista da li una quarantina di chilometri e nella steppa mica ci sono i reticolati e le dogane con la Finanza. Semplicemente i kazaki partono e se ne vanno per trovare lavoro in Mongolia. E finiscono a Novanta. E’ un po’ come per gli africani che scappando attraversando il deserto e poi il Mediterraneo finiscono schiavi a raccogliere pomodori nei nostri campi.
Non so come sia la miniera. Mi sarebbe piaciuto trovare i contatti per riuscire ad entrarci. Ma avevo poco tempo. E la nostra guida mi avrebbe ucciso se l’avessi fatto. Ma se il villaggio è messo cosi’ la miniera dev’essere una roba più giù dell’inferno. Molto più giù.
Il villaggio è fatto di casupole di legno e fango, scrostate, più nell’anima che nei muri. Che sono molto scrostati. All’ingresso di Novanta c’è una specie di palazzotto sovietico, tipo municipio, con fuori una statua di cemento grigio e una bandiera sfilacciata. Tristissimo.
Poi stradine quasi vuote, e polvere, polvere e ancora polvere.
Vecchie auto e moto russe; coperte di polvere.
Panni stesi; sotto la polvere.
Giocattoli scassati; coperti di polvere.
Cani rognosi col pelo impregnato di polvere.
Un paio di negozietti che vendono un po’ di tutto, ma soprattutto molta vodka. Il meccanico che aggiusta con quattro attrezzi improbabili ogni genere di guasto. Il ristorante a norma ASL dei ravioloni di capra.
In giro poca gente. Le donne, le mamme, indaffarate come tutte le mamme. Pochi uomini, anziani, malati, ubriachi. A volte molto ubriachi.
Quando siamo arrivati ci devono aver preso per marziani. Alien 4 (o 5?). Nessun occidentale passa di li’. Forse, ma forse, qualche russo. Figuriamoci 14 camminatori italiani caciaroni con giacche a vento e zaini tutti colorati. Marziani pericolosi.
Scappano tutti in casa. Poi, pian piano, arrivano i bambini. Un sorriso, una caramella, i gelati presi nei negozietti tra le bottiglie di vodka. E gli Alien diventano umani, le mamme escono di casa e poi anche gli uomini cominciano a dare confidenza. Non sono poi cosi’ cattivi questi marziani.
Giro per i vicoli per fare qualche foto. Fuori da una casupola una bambina mi invita ad entrare. Dentro è pulito e ordinato, ci sono la mamma, un altro bambino e un vecchio. O forse non è cosi’ vecchio, ma tremendamente invecchiato dalla vita in miniera. Mi fanno accomodare sul divano. Tirano fuori dolcetti e il temibile formaggio acido di capra. Accetto. “Io no russo”, dico. Sono sollevati. Al contrario di quanto sta succedendo da noi, qui i russi non li ama proprio nessuno. Dico “Io italiano, Italia, Italy”. Sorridono, sono contenti. Vorrei dire “Italiani Kazaki una faccia una razza”, ma mi trattengo. E’ cosi’, puoi andare anche in fondo a Culonia, ma l’italiano piace sempre, non passa mai di moda.
Il vecchio comincia a fare gesti. Non capisco. Fa due pugni, li batte dietro sulla schiena. Poi indica delle piccole caramelle. Dopo un po’ capisco. Ha problemi ai reni e cerca medicine. Mi accorgerò che anche altri hanno chiesto medicine. Non ce ne sono a Novanta. Non credo esista neanche il dottore. Medicine per i reni. Cosa faccio? Tra tutti i camminatori avremo una farmacia al gran completo. Ma cosa gli do? E come gli spiego come prenderle? No, meglio di no. Dico che non ho medicine. Facciamo qualche foto, saluto e me ne torno tra i compagni di viaggio.
Ci raggiunge il vecchio dai reni ammalati. Ne parlo coi compagni. Decidiamo tachipirina e oki. Quelli non hanno mai ucciso nessuno. Gli lasciamo un po’ di tachipirina e qualche bustina di oki. Spiego alla bimba che mi ha portato nella casa come fare, in italiano e a gesti. E’ la più sveglia della famiglia. Mi ripete le indicazioni in kazako e a gesti; capisco che ha capito. Comunque sono poi solo tachipirina e oki, non hanno mai ucciso nessuno…
Dopo un altro giro per qualche foto sono esausto. Ho ancora tempo da aspettare e potrei fare altre foto, Novanta è pieno di occasioni, ma sono sfinito. Non so, forse è solo perché camminiamo da tanto, la pioggia, le notti gelide in tenda, la capra bollita…
O forse Novanta è un po’ troppo. Novanta pesa sul cuore, sulla coscienza. Novanta ti taglia in due, espone tutte le contraddizioni in un colpo solo. Hai la sfiga di nascere qui e devi elemosinare la tachipirina agli alieni. E l’alieno ci resta male che non hai neanche la tachipirina.
Mi siedo su un gradino. Polveroso. Forse mi appisolo anche un po’. Poi arrivano le UAZ.
E’ strano. Mi manca Novanta. Vorrei tornarci con una cassa di medicine e un interprete. Ci sono tante casupole abbandonate. Ci si può aprire un dispensario. Saro’ presuntuoso, ma posso fare meglio di tanti medici.
E poi, dopo pranzo, mi siederei sulla panca fuori dal ristorante dei ravioloni a guardare chi passa. Perché ne sono convinto: la vita non è scappata, è solo andata a farsi un giro, prima o poi ritornerà.
Raul Riva